Il commento della settimana Emiliano Brancaccio | Ricordate la storiella secondo cui il ceto medio si sarebbe allargato a dismisura e saremmo tutti diventati dei piccoli, pasciuti capitalisti? Anni fa questa immane sciocchezza la ripetevano in molti, inclusi autorevoli leader della sinistra. Oggi però la litania non va più di moda. Persino l’Ocse ha ammesso che nel mondo sta avvenendo un fenomeno esattamente opposto, di erosione dei ceti intermedi e di polarizzazione tra i gruppi sociali. Al punto che, negli olimpi della ricerca economica, si assiste a un recupero del concetto marxiano di «classe». La contrapposizione tra capitale e lavoro, cioè, resta un duro fatto di cui occorre tener conto se si vuol comprendere una realtà altrimenti indecifrabile. Inclusa la realtà del bilancio statale.
Se osserviamo l’impatto delle manovre di bilancio pubblico sulle diverse classi sociali, noteremo che da circa un trentennio lo Stato redistribuisce risorse dai deboli ai forti. Vale a dire, dagli abitanti delle regioni povere a quelli delle regioni ricche, dai malati ai sani, dai bisognosi di assistenza agli autosufficienti, dai figli degli analfabeti di ritorno ai figli degli acculturati, dai proletari ai proprietari, dai salariati ai percettori di rendite e profitti.
James Galbraith l’ha definita una lotta che vede i capitalisti nel ruolo di «predatori dello Stato»: impegnati ad accaparrarsi risorse che un tempo venivano trasferite alle classi inferiori.Il fenomeno è di portata globale. Ma l’Italia, più di altri paesi, si sta rivelando un habitat eccezionalmente favorevole per le scorribande dei «predatori dello Stato». Il governo Meloni, al riguardo, offre esempi rilevanti.
Consideriamo l’abolizione del reddito di cittadinanza. Nelle regioni più martoriate dalla povertà e dal lavoro nero, il reddito agiva come una sorta di salario minimo di fatto. La sua eliminazione comporterà quindi un trasferimento non semplicemente dagli indigenti allo Stato, ma più in generale dai lavoratori ai capitalisti.
Pensiamo poi alla riforma fiscale con cui il governo intende scendere ad appena tre aliquote di prelievo, con una ulteriore ipotesi di «scudo» a favore delle rendite. È l’ennesimo colpo inferto al principio costituzionale di progressività delle imposte. Ricordando che negli anni Settanta esistevano ben ventidue aliquote e non c’erano privilegi per i rentiers, comprendiamo la forza con cui, da decenni, i «predatori» spostano i carichi fiscali sulle spalle delle classi subalterne.
Ma ci sono anche esempi più subdoli. Esaminiamo la riduzione del cuneo fiscale, che a dire dei ministri in carica dovrebbe dare ampio sostegno ai salariati. Se la confrontiamo con l’inflazione degli ultimi tre anni, che ha accresciuto non solo i profitti ma anche il valore nominale del bilancio statale, ci rendiamo conto che l’intervento sul cuneo non è nemmeno un pannicello caldo. È una beffa.
Infine, analizziamo la proposta, avanzata dal ministro dell’economia, di un rilancio delle privatizzazioni. Se osserviamo gli effetti delle dismissioni record attuate dall’Italia nei decenni passati, scopriremo che il loro impatto in termini di cassa è stato ben diverso dalle attese, per un motivo evidenziato anche dalla Corte dei conti: se è vero che all’atto della vendita lo Stato incassa dai privati, è altrettanto vero che negli anni successivi perde le entrate che venivano dalle aziende di cui era proprietario, con un risultato complessivo che spesso risulta persino negativo per i conti pubblici.
Ancora dalla Corte dei conti, del resto, si scopre che il vero effetto delle privatizzazioni è stato un altro: vale a dire, un impatto incerto sui prezzi, negativo sui salari, molto positivo sui profitti. Ancora una volta, una redistribuzione alla rovescia nell’interesse dei «predatori».
Molto ci sarebbe da fare per un’opposizione intenzionata a contrastare questo spaventoso asservimento del bilancio statale agli esclusivi interessi della classe egemone. Bisognerebbe tuttavia iniziare da un’onesta ammissione. Dalle riforme regressive del fisco alle privatizzazioni, molte misure attuate oggi da Meloni e soci sono state pane quotidiano per vari governi di centrosinistra. La dura lotta contro i «predatori», se davvero comincia, parte dall’autocritica.
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