Il commento della settimana Andrea Fabozzi | Si può condividere o meno la tesi proposta ieri al meeting di Rimini da Sergio Mattarella e cioè che sono state l’amicizia e l’armonia tra i popoli e tra le classi a far progredire l’umanità e non invece il conflitto. Si può accettare o meno l’idea che il dibattito pubblico sia decaduto al punto che un presidente della Repubblica debba replicare alle trivialità di un generale ansioso di fama. Ma certamente il discorso del capo dello stato fischia la fine della ricreazione estiva. I problemi della politica sono tutti sul tavolo e la ripresa è dietro l’angolo.
Al termine di un’estate in cui gli esponenti del governo e della maggioranza – a dispetto di un ostentato desiderio di relax – hanno sperimentato nuove crudeltà sui migranti, confermato l’allergia all’antifascismo e coniugato in parole e opere il verbo di una politica antisociale e in definitiva nemica dei poveri, il presidente della Repubblica rovescia il quadro. Proietta un altro film i cui fotogrammi fondamentali sono le parole chiave del suo discorso: ricchezza delle diversità, no ai muri, solidarietà, antifascismo e Costituzione. La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Non c’è (ancora) polemica diretta, perché il capo dello stato ha come stella polare la tutela della sua funzione e del suo ruolo. E perché a ogni strappo che questa destra produce sulla tela repubblicana regge ancora il gioco del silenzio, da parte della presidente del Consiglio, e delle mezze smentite riparatrici, da parte della sua cerchia. Ma fino a quando?
La coabitazione, perché di questo si tratta, tra un presidente della Repubblica guardiano della Costituzione e una maggioranza a-costituzionale – con la frequente tentazione di scivolare nell’anticostituzionale – si è fin qui nutrita soprattutto di segni. Trattenendo oltre ogni ragionevole limite il disegno di legge sulla giustizia e chiamando al Quirinale i vertici della Cassazione, Mattarella ha segnalato in silenzio la sua distanza dalle scelte del governo. Ricevendo i presidenti di senato e camera ha sottolineato la sua insoddisfazione per il ripetersi di decreti e maxiemendamenti, malgrado i suoi precedenti richiami.
Stressando la matrice neofascista della strage di Bologna, il Quirinale ha coperto l’afonia di palazzo Chigi. Parlando della necessità di canali di ingresso legali nel nostro paese e ricordando il dovere costituzionale dell’accoglienza, il presidente ha proposto un regolare controcanto a ogni più truce uscita di leghisti e meloniani. Potremmo continuare.
Lo stile di questo presidente della Repubblica – che ha davanti a sé un mandato ancora lungo, più di quello (teorico) del governo – è consolidato. Non prevede interferenze nell’azione del potere esecutivo. Punta invece sulla moral suasion, accompagnata quando serve da gesti e discorsi pubblici molto chiari accolti (come ieri) dal silenzio della maggioranza. Ormai, però, il presidente deve sempre più spesso intervenire per queste pubbliche correzioni di rotta. E non potrà che continuare, perché le difficoltà del governo sul terreno concreto dell’economia sposteranno inevitabilmente capi e sottocapi della destra sul terreno simbolico delle battaglie identitarie sui diritti e sui valori, precisamente quello che il capo dello stato presidia con più attenzione. Ancora, a metà ormai tra il concreto e il simbolico sta il tema della riforma costituzionale, utile com’è ai governanti anche per parlar d’altro. Al Quirinale sanno benissimo quanto la sgangherata ipotesi di premierato elettivo che la destra mette in campo sia minacciosa delle prerogative del presidente della Repubblica, quanto e più del tramontato presidenzialismo.
Nella versione italiana della coabitazione, non è il capo dello stato, come in Francia, la figura investita dal mandato popolare. Il discorso di Rimini di Mattarella conferma la distanza del presidente dall’agenda pratica e simbolica del governo. Conferma d’altro canto anche la sua estrema cura nell’evitare contrapposizioni. Eppure questo equilibrio di sottintesi diventa ogni giorno più precario. |