La bugia del secolo e la legge del più forte
Hanno fatto un deserto Ci sono guerre che cambiano il mondo. Che generano nuovi immaginari, svelano le contraddizioni della contemporaneità, uniscono e distruggono. La seconda guerra del Golfo è una di queste
Hanno fatto un deserto Ci sono guerre che cambiano il mondo. Che generano nuovi immaginari, svelano le contraddizioni della contemporaneità, uniscono e distruggono. La seconda guerra del Golfo è una di queste
Ci sono guerre che cambiano il mondo. Che generano nuovi immaginari, svelano le contraddizioni della contemporaneità, uniscono e distruggono.
La seconda guerra del Golfo è una di queste. Al presente, perché gli effetti di quell’invasione si sono trascinati in rivoli trasformativi che hanno dettato gli anni a seguire. In epoca di guerra come quella che stiamo vivendo, mai come adesso l’invasione guidata da Stati uniti e Gran Bretagna è attuale. Lo è perché fece vittime illustri. Prima tra tutte il popolo iracheno: sfinito da decenni di conflitto e un embargo feroce che non scalfì il potere di Saddam Hussein ma gettò nella miseria e la disperazione milioni di persone, è rimasto all’inferno. Bombardamenti, umiliazioni, una povertà ancora più soffocante, attentati quotidiani, una spartizione settaria del potere che «se prima avevamo un Saddam, ora ne abbiamo cento». L’Iraq che può farlo scappa: secondo il Doha Institute, emigrare è il sogno del 37% degli iracheni, per troppi un sogno risucchiato dal Mediterraneo.
La redazione consiglia:
Vent’anni di seconda guerra del Golfo: l’Iraq dal 2003 al 2023E poi l’intero Medio Oriente: la lotta armata nata contro l’invasione ha fornito linfa vitale alle reti jihadiste globali che dall’Iraq hanno conquistato territori (in alcuni casi facendosi «Stato», l’Isis), sottomesso popolazioni e commesso atroci massacri, dal Golfo al Levante fino all’Africa sub-sahariana.
La terza vittima è quella il cui abuso è il più sottile, ma anche il più pericoloso: il diritto internazionale, e l’idea fondativa che se si sviliscono i principi condivisi tra le nazioni a prevalere sarà la legge del più forte. A cavallo tra il 2002 e il 2003 il mondo intero assisté al deplorevole spettacolo di interessi di parte spacciati per necessità globale, all’auto-legittimazione della peggiore delle violazioni della legalità e allo sconcertante conio del sinistro termine «guerra preventiva».
Il mondo non restò a guardare: il New York Times le battezzò «la seconda potenza mondiale», oltre 110 milioni di persone scese nelle piazze di tutto il globo per dire no a una guerra pretestuosa. Un movimento che si legava naturalmente, per obiettivi e visione, a quello no global e al popolo dei Forum sociali, capaci di immaginare un’alternativa concreta al neo-capitalismo. L’invasione partì comunque. Ne paghiamo ancora le conseguenze: un Medio Oriente devastato da conflitti settari, un’idea di sicurezza «razzializzata» che categorizza le persone su base etnica e religiosa, declinando così il grado di minaccia rappresentata per la società. E soprattutto il messaggio che le democrazie liberali hanno mandato al resto del mondo: violare il diritto internazionale si può, invadere un paese sovrano si può. E non è detto che si debba pagare.
Di seguito, gli articoli dell’inserto del 21 marzo 2023:
Quel che resta del popolo iracheno – di Michele Giorgio, Chiara Cruciati
«Da quella mobilitazione i semi di tante rivolte» – di Marina Catucci
Iraq, cento anni di settarismi e nessuna eguaglianza – di Salah al Nasrawi
Luigi Ferrajoli: «Guerra, Abu Ghraib, Guantanamo. Così muore la civiltà del diritto» – di Giansandro Merli
La rassegnazione di Baghdad: «La guerra è già qui» – di Giuliana Sgrena
«L’Iraq libero e laico nella lotta dei giovani» – di Giuliana Sgrena
Lanciarazzi e populismo, la parabola sadrista – di Michele Giorgio
L’ascesa del jihadismo, da ribelli a governanti – di Giuliano Battiston
L’oceano pacifico e l’abuso atlantico – di Alfio Nicotra
Il romanzo di Baghdad come un corpo ricomposto – di Guido Caldiron
Il nuovo cinema sogna la rivoluzione – di Cristina Piccino
I consigli di mema
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