Il commento della settimana Francesco Strazzari | Un camion-bomba, non i razzi di precisione forniti dagli americani. Un’azione degli apparati militari ucraini dietro le linee nemiche, più spregiudicata dell’attentato a Darja Dugina, la figlia dell’ideologo della destra nazionalista russa rimasta uccisa a Mosca, il 20 agosto.
Si potrà legittimamente dubitare di questa versione: uno scenario in cui si muoverebbe un kamikaze ucraino, alla guida di un singolo camion che sfugge al controllo, ma trasporta un carico esplosivo tale da affondare il patriottico ponte sullo stretto di Kerch.
Dopo tante allusioni fatte dal ministero della difesa ucraino, proprio nel giorno del compleanno di Vladimir Putin. Del resto, non sono del tutto fugati nemmeno i dubbi sulla vicenda dell’attentatrice ucraina.
È un fatto, però, che al fronte combattente ucraino torni utile la celebrazione della propria capacità di colpire ovunque e in autonomia.
Allo stesso modo, come già per l’attentato di Mosca – di cui ‘fonti statunistensi informate’ raccolte dal New York Times giorni fa hanno attribuito la responsabilità a Kyiv – Washington ha tutto l’interesse ad introdurre distanza fra il proprio appoggio alla causa della difesa ucraina ed il clamore di questi attacchi, così da poter continuare a esercitare pressione senza perdere il controllo delle dinamiche escalatorie.
L’annessione della Crimea nel 2014 è l’atto di politica estera più popolare del ventennio di potere putiniano.
Inaugurato nel maggio del 2018, il ponte sullo stretto di Kerch, venne costruito con il preciso intento di trasformare il mare di Azov – sul quale si affaccia il porto di Mariupol – in un lago russo. Annunciato come «l’opera del secolo», unisce la penisola di Crimea alla madrepatria russa ed è costato la bellezza di 228 miliardi di rubli.
Ora la sua parziale distruzione (la linea ferroviaria pare restare funzionante) ha forte rilievo economico, militare (approvvigionamenti, spostamento truppe), psicologico (il valore talismanico della Crimea per la narrazione nazionalista grande-russa) e, in ultima analisi, politico.
Mentre per le strade di Kyiv si festeggia, e i social media ribollono di ironia e sarcasmo, i blogger militari e gli opinionisti nazionalisti russi puntano il dito direttamente contro la Nato e la sua strategia di progressivo svuotamento delle capacità offensive russe.
Vladimir Solovjov ha subito invocato una risposta «con ogni mezzo…colpendo in direzioni in cui il nemico non si aspetta … facendo piombare l’Ucraina in tempi bui».
Del resto, quando gli ucraini iniziarono ad alludere alla distruzione del «ponte illegale», l’ex presidente russo Medvedev – ormai consegnatosi al ruolo di Stranamore – aveva pronosticato, in caso di attacco, all’avvento istantaneo del Giudizio Universale.
La realtà è che ogni giorno che passa la credibilità delle postazioni e delle posizioni russe si sgretola. Il ricatto nucleare per mettere al sicuro le annessioni territoriali non trova appoggio internazionale nemmeno fra i partner di Mosca, e mai come ora Putin è apparso nella sostanza isolato nel percorrere un binario che insiste in una direzione in cui l’esercito, diviso e demoralizzato, non riesce ad avanzare.
Alla luce delle perdite subite, è davvero difficile, anche ipotizzando maggiore coercizione, immaginare come la Russia possa prevalere militarmente.
La strategia del Cremlino, che tradisce le aspettative dei russi abbinando minacce nucleari e mobilitazione di truppe, punta a stabilizzare il fronte ucraino in vista dell’inverno, confidando nell’affiorare di divisioni in occidente, sotto il peso delle bolletta energetica.
Gli ucraini, per contro, non hanno nessuna intenzione di fermarsi, e con l’attacco al ponte mostrano di voler continuare ad avanzare, mandando un segnale all’opinione pubblica americana: gli aiuti militari sono efficaci.
Poche ore dopo il crollo parziale del ponte, a 50 km dalla Mariupol occupata, gli Himars dell’artiglieria di Kyiv hanno colpito pesantemente le linee di rifornimento di munizioni nella stazione di Karan, a 50 km da Mariupol, lungo la linea per Melitopol.
La guerra dunque continua senza soste. In questo scenario Nato e Stati Uniti si sono impegnati a sostenere gli Ucraini fino in fondo, senza che sia del tutto chiaro dove si trovi il fondo: prendono le distanze dagli atti più eclatanti, lasciano il proprio segno su una strategia che mette Mosca costantemente davanti alle opzioni tattiche meno desiderabili, cercando di disegnare uno scenario che privi di utilità, fino a farlo apparire controproducente, l’impiego russo delle atomiche a basso potenziale (il cosiddetto «nucleare tattico») .
Dopo il devastante attacco alla base di Saki, che in agosto seminò il panico fra i villeggianti russi, spingendoli in fuga attraverso il ponte, l’attacco di ieri è un’altra linea, ancora una volta in direzione della Crimea.
A ben vedere la penisola è forse la linea rossa su cui il regime di Putin rischia di più, e sulla quale alcune diplomazie (e gli stessi improvvidi interventi social mediatici di Elon Musk) in fondo confidano per valutare soluzioni di compromesso che pongano fine alla guerra concedendo qualcosa a Mosca.
Gli ucraini ne sono consapevoli, e non risparmiano colpi in questa direzione. Fino a dove potranno spingersi e con quali implicazioni dipenderà anche da un contesto nel quale la politica internazionale, tanto dal basso (le mobilitazioni, i media) quanto dall’alto (la diplomazia) per ora pare aver rinunciato ad esporsi, limitandosi in fondo a seguire a distanza il dipanarsi della matassa bellica, decifrando l’ordine delle cose che essa pare suggerire.
Mano a mano che il senso degli eventi militari diventa chiaro, affiora la natura politica del conflitto, e si mostrerà come anche sul versante di chi sostiene il diritto ucraino a difendersi esistono diverse posizioni.
Allo stesso modo, nel momento in cui la parola pace diventa pronunciabile, è verosimile che si rendano più acute le divisioni non solo a Mosca (dove gli eventi possono prendere corsi imprevedibili), ma anche in Ucraina, e fra gli alleati della causa ucraina.
Schierarsi, sul versante europeo, senza esitazione contro l’annessione russa non significa non vedere l’esistenza di un problema chiamato nazionalismo, che certo la Russia di Putin ha aizzato in ogni modo.
L’idea che la politica, la diplomazia e le mobilitazioni per la pace non abbiano alcun ruolo mentre parlano le armi appartiene a una visione suicida della storia.
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